Tu sei qui: Flusso di CoscienzaL’Europa si piega agli Stati Uniti: svenduti cibo, energia e dignità politica
Inserito da (Admin), lunedì 28 luglio 2025 19:07:12
Bruxelles annuncia con toni trionfali il raggiungimento di un nuovo "accordo commerciale" con gli Stati Uniti. Ma basta leggere tra le righe, soprattutto nei numeri, per capire che questo non è un accordo, bensì una capitolazione mascherata.
Altro che trattativa tra pari: l'Unione Europea si è piegata alle pressioni economiche e politiche americane, cedendo su dazi, energia, investimenti e, fatto ancora più grave, aprendo le porte del nostro mercato a prodotti che minacciano di travolgere la nostra agricoltura, la qualità del nostro cibo, la nostra salute e la competitività.
Mentre l'Europa abbatte o azzera dazi su beni americani, gli Stati Uniti mantengono barriere sulle nostre esportazioni strategiche:
Sull'acciaio europeo non ci sono affatto "dazi zero": vige ancora un sistema di contingenti tariffari (TRQs) che permette l'ingresso senza dazi solo fino a un certo limite. Superata la quota, scatta di nuovo il dazio pieno del 25%.
Per alcuni prodotti siderurgici europei specifici (es. acciai speciali), sono stati imposti in passato dazi fino al 50% con motivazioni "antidumping". Sull'alluminio resta una tariffa base del 10%.
E mentre Washington si tiene stretto il protezionismo, la UE apre il portafoglio: oltre 750 miliardi di euro in acquisti di gas naturale liquefatto americano, e più di 600 miliardi di investimenti industriali europei che migrano verso gli USA, attirati da sussidi e incentivi del Inflation Reduction Act. Chi ci ha guadagnato, davvero?
Ciò che si muove in sottofondo è ancora più preoccupante: la progressiva apertura del mercato europeo ai prodotti agroalimentari americani.
Dietro lo scambio "dazi industriali vs. pace diplomatica", si cela la spinta di Washington per accedere più facilmente al mercato UE con prodotti agricoli trattati con: OGM, ormoni della crescita, antibiotici massivi, trattamenti post-raccolta (es. pollo al cloro).
Prodotti vietati o rigidamente regolati in Europa, ma ora sul punto di passare dalla dogana alla nostra tavola, se non si alza uno scudo normativo adeguato.
Gli Stati Uniti presentano un'agricoltura fortemente industrializzata, costruita su logiche di produttività con alta resa a basso costo. Essa si fonda sull'uso massiccio di organismi geneticamente modificati, ormoni della crescita e antibiotici in zootecnia, su pesticidi vietati in Europa come il clorpirifos e su trattamenti post-raccolta considerati inaccettabili in ambito comunitario, come il pollo al cloro o le carni irradiate. Il tutto è sostenuto da normative sanitarie permissive, largamente protette da un sistema di lobby influenti e radicate nel potere politico.
Al contrario, l'Europa ha costruito il proprio modello agroalimentare su basi diametralmente opposte: regole severe in tema di sicurezza alimentare, tracciabilità e sostenibilità ambientale; un sistema di denominazioni di origine controllate (DOP, IGP, DOCG) che tutelano l'autenticità delle produzioni; un legame profondo tra prodotto, territorio e identità culturale.
Nonostante questa distanza normativa e culturale, Washington chiede da anni maggiore accesso al mercato agricolo europeo, lamentando quelle che definisce "barriere tecniche non tariffarie", come le restrizioni su OGM e i limiti sanitari. La pressione riguarda settori ben precisi: carne bovina, suina, pollame, mais, soia e latticini.
In questo contesto, il dialogo sui dazi industriali, acciaio, auto, energia, diventa uno strumento di scambio. Il messaggio sottinteso è chiaro: se l'Europa vuole evitare dazi punitivi sui suoi beni strategici, deve spalancare le porte al modello agricolo americano, abbassando la guardia sui propri standard.
Le conseguenze sono tutt'altro che astratte. C'è il rischio concreto di un abbassamento generalizzato dei requisiti sanitari e ambientali per effetto delle pressioni commerciali. Si rischia inoltre una competizione sleale, considerato che l'agricoltura statunitense è largamente sovvenzionata e gode di economie di scala irraggiungibili per le nostre imprese agricole. A ciò si aggiunge il pericolo di un lento smantellamento delle eccellenze locali europee, aggirate o surclassate da prodotti più economici e meno tracciabili. Vi è infine l'ipotesi, sempre più concreta, di un'invasione silenziosa di carne o derivati americani che potrebbero entrare nel nostro mercato con etichette ambigue, magari sotto la voce "origini miste" o "lavorato in Europa".
Qui in Campania, in particolare in Costiera Amalfitana, sappiamo bene cosa significa coltivare la qualità come patrimonio culturale: limoni IGP, vino da terrazzamenti, alici di Cetara, mozzarella di bufala.
Ora immaginiamo questi prodotti costretti a competere con carne industriale americana o formaggi sintetici venduti a un terzo del prezzo, senza la minima garanzia su standard, origine e sostenibilità.
Difendere il cibo europeo non è una battaglia ideologica, ma una questione di salute pubblica, economia e civiltà.
Non si può parlare di "transizione verde" e poi aprire il mercato a prodotti che non rispettano né l'ambiente né l'uomo.
Non si può chiedere agli agricoltori europei di rispettare regole rigidissime, e poi lasciarli affondare in un mare di concorrenza sleale.
I cittadini europei, i consumatori, i produttori, i ristoratori, noi tutti , dobbiamo chiederci: perché stiamo accettando tutto questo in silenzio?
L'Europa ha le carte, il mercato e l'intelligenza per reagire. Serve solo la volontà politica di farlo. E forse anche un po' più di coraggio.
L'Europa aveva gli strumenti per contrattaccare ma non li ha usati.
Ecco cosa avrebbe potuto e dovuto fare la UE ma non lo ha fatto: avrebbe potuto rafforzare le regole sulle etichette e tracciabilità obbligatoria per l'origine e i trattamenti. Avrebbe potuto mettere dazi ambientali e sanitari selettivi, giustificati da norme di sicurezza pubblica. Avrebbe potuto imporre contro dazi mirati su beni e servizi americani, come fanno loro. Avrebbe potuto imporre la reciprocità normativa: "Vuoi vendere qui? Rispetta le nostre regole".
La UE avrebbe potuto sfruttare la leva delle big tech USA, nel senso di una tassazione equa, protezione dei dati e parità regolatoria, avrebbe potuto vincolare gli acquisti energetici a contratti equi, non ricattatori.
Perché non l'ha fatto? Semplice, per paura, per mancanza di unità tra Stati membri e per assenza di una visione strategica comune a lungo termine. A cosa ci serve una UE in queste condizioni ? Non sarebbe tempo di darci una sveglia per cercare di modificarla o altrimenti di rinunciarvi?
La UE non ha reagito perché terrorizzata dalle potenziali ritorsioni USA su settori industriali strategici. Perché non esiste una politica agricola estera unificata. Perché la Commissione tende a trattare il cibo come merce, non come cultura o salute pubblica.
Alcuni Paesi europei hanno preferito svendere un pezzo del nostro sistema agricolo in cambio della protezione dei loro interessi industriali immediati. Dietro le quinte, alcuni Stati membri chiudono un occhio in cambio di favori su altri tavoli.
Paesi più industrializzati (es. Germania) sono disposti a cedere su temi agricoli per salvare le loro esportazioni industriali. I Paesi agricoli (Italia, Francia, Spagna) sono contrari ma prevalgono gli interessi commerciali a breve termine.
Non si tratta di sovranismo o chiusura, ma di difendere i nostri standard, la nostra salute, la nostra economia e la nostra dignità politica.
Accettare le condizioni di un'amministrazione arrogante come quella USA, senza alzare nemmeno la voce, non è diplomazia, è sottomissione. L'Europa ha mercato, competenze e legittimità per farsi rispettare.
Serve solo una cosa: la volontà politica.
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