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Storia e Storie

Coronavirus, contagio, abbandono, Maiori, sanità, terapie domiciliari

Covid, il calvario di una signora di Maiori: quando la sanità ti abbandona e a salvarti è chi non ti aspettavi…

Nunzia ha contratto il Covid-19 insieme a parte della famiglia, ma è stata l’unica a presentare sintomi evidenti, che richiedevano il parere decisivo di un medico. Ora è guarita e sta bene, ma non ha trascorso con serenità il periodo di malattia, non solo per i sintomi, ma anche per l’abbandono in cui si è sentita piombare quando ha chiesto aiuto e non l’ha ricevuto

Inserito da (Maria Abate), mercoledì 28 aprile 2021 18:52:17

Nunzia Lieto, una cordiale signora di Maiori, ci ha contattati chiedendoci di fare da tramite per raccontare una storia.

Una storia vera, che prende piede da ciò che le è accaduto in prima persona e che spinge a riflettere in un senso più ampio.

Anche J-Ax, dopo essere guarito dal Covid-19, aveva denunciato pubblicamente di aver provato «la rabbia di sentirsi abbandonati dal tuo Stato». Un abbandono che, spesso, chi in questi mesi ha contratto il virus ha sentito in modo palpabile e angosciante sulla propria pelle.

Ebbene, Nunzia ha contratto il Covid-19 insieme a parte della famiglia, ma è stata l'unica a presentare sintomi evidenti, che richiedevano il parere decisivo di un medico. Ora è guarita e sta bene, ma non ha trascorso con serenità il periodo di malattia, non solo per i sintomi, ma anche per l'abbandono in cui si è sentita piombare quando ha chiesto aiuto e non l'ha ricevuto.

Tanto che il conforto e l'aiuto pratico l'ha dovuto trovare nel gruppo Facebook #TERAPIADOMICILIARECOVID19 in ogni Regione, che attualmente conta 395.722 membri, ma cresce di giorno in giorno.

Trentanove giorni in tutto quelli che ha trascorso con il Covid-19, trentanove giorni in cui Nunzia ha potuto capire non solo in che stato sia la sanità italiana, ma anche chi veramente le è stato vicino e quanto i social network possano essere importanti se utilizzati bene.

 

Vi riproponiamo la sua lettera aperta, perché è una testimonianza significativa di quello che vuol dire contrarre il Covid-19 e averne i sintomi, ma anche un messaggio di forza e coraggio indirizzato a chi attualmente ne è affetto.

 

Sul finire di febbraio mio figlio risulta positivo al Covid-19. Fin da subito, cercando di ignorare l'ansia che si impadroniva sempre più di noi, ci siamo impegnati a rispettare i protocolli previsti per la quarantena domiciliare, restando isolati ciascuno in una stanza diversa, disinfettando le superfici di frequente e indossando la mascherina anche in casa. Ma non è stato sufficiente.

Il 2 marzo incomincio a sentirmi male: ho la febbre e inizio ad accusare affaticamento nel respirare, così telefono il medico curante per capire il da farsi e lui mi prescrive una tachipirina e mi dice: «Stia in vigile attesa».

Di notte, però, mi sento male: mi mancano le forze e non riesco bene a respirare. Chiamo il 118. La risposta che il sanitario di turno mi dà non fa altro che gettarmi nello sconforto: «Signora, se volete morire la portiamo in ospedale». Decido di rimanere a casa, ma non chiudo occhio.

Nel frattempo passano i giorni e il medico di base continua a non rispondere alle mie telefonate. Così il 5 marzo chiamo l'Usca chiedendo un tampone domiciliare, ma ricevo soltanto l'ennesima batosta: «A noi non risulta segnalata. Se il medico non si mette in contatto con noi non possiamo fare niente».

Così, il giorno successivo decido di andare al Porto turistico di persona: ricordo ancora la sensazione di difficoltà che ho incontrato nella semplice attività di scendere le scale di casa perché non riuscivo a respirare e faticavo a reggermi in piedi. Ma non mi arrendo: arrivo all'Usca e mi sottopongono a tampone. Chiedo di essere visitata ma rifiutano: non spettava a loro. Alle 19 arriva l'esito del test: positivo.

Non mi stupisco nemmeno: le mie condizioni di salute peggioravano ed ero ben conscia di avere il Covid. Purtroppo nemmeno dopo l'ufficialità le cose sono migliorate. Innanzitutto, chiamo il medico per avvisarlo dell'esito e lui non mi risponde. Lo fa solo il lunedì successivo, dopo due giorni dall'accertata positività, e mi cambia la terapia. In serata, però, mi sento davvero male: chiamo la guardia medica, ma ancora una volta mi negano una visita non essendo competenza loro visitare un malato Covid.

Ero nello sconforto più totale: la terapia non dava miglioramenti e il 118 mi aveva consigliato di rimanere a casa perché in ospedale sarei stata abbandonata a me stessa. Però nessuno veniva a visitarmi. Un incubo.

Nel frattempo, mio marito Nicola fa il tampone a domicilio: il medico Usca mi "visita" e sospetta che io abbia la polmonite bilaterale. A darmi la conferma, tre settimane dopo, sarà poi un altro medico, uno pneumologo di Agerola, che pur essendo positiva al Covid-19 accetta di visitarmi di persona. Non riuscendo a respirare, pretendo che il medico curante mi prescriva una bombola d'ossigeno. E per fortuna me la fa recapitare.

Qui entra in campo il gruppo Facebook: in questo angolo ho trovato medici disposti a dare consulenze e cure a distanza, video tutorial in cui si spiega come farsi le siringhe di eparina da soli, come misurare la saturazione, quali alimenti prediligere per aiutare il corpo a reagire.

Nel frattempo arriva l'esito positivo di Nicola. Ancora altra ansia.

Alle 17,30 una dottoressa del gruppo Facebook, Chiara Schiaffini, mi contatta: era martedì 9 marzo, erano passati già tre giorni dall'ufficialità del mio contagio e sette dalla comparsa dei primi sintomi.

Dato che il medico curante continuava a non rispondere, il dottor Vitagliano mi organizza una videochiamata con uno pneumologo dell'ospedale di Scafati per le 18,30 di mercoledì, ma salta la connessione. Quando riesco a recuperarla mi conferma che la terapia è giusta perché da protocollo.

Però io continuo a stare male: la terapia non mi dà neppure un po' di sollievo e solo l'ossigeno mi aiuta a respirare. Alle 19 telefono al dottor Salvatore Confalone in farmacia e chiedo consiglio sulla nuova cura che mi aveva prescritto la dottoressa e lui mi assicura che è giusta perché era scritta da medici che stavano in prima linea.

Continuo a chiamare chiunque ed è sempre un rimpallo di responsabilità. All'Asl risultavo asintomatica perché il medico non segnalava i miei sintomi all'Usca. Ero impotente, sfiduciata, abbandonata a me stessa, incapace di reagire: non lo auguro a nessuno.

Ormai avevo provato tutto ciò che era in mio potere e nessuno aveva capito quanto stessi male. Così giovedì 11 marzo mi decido: lascio il certo ("Maiori") per l'incerto ("gruppo Facebook"). Inizio la cura fornitami dalla dottoressa Schiaffini.

Giovedì notte ho bisogno dell'ossigeno a potenza 5: solo così riesco bene o male a respirare. Misuro la saturazione di continuo: oscilla tra 86 e 82. Chiamo il 118 e chiedo una visita domiciliare: non è loro competenza, mi dicono. A questo punto temo davvero di morire: mio marito, con il quale parlavo a telefono da un'altra stanza, mi incoraggia a resistere («Adda passà a nuttata, cu' ‘o juorn coccos' addà cagnà»), ma a me non resta che affidarmi a Gesù e alla Madonna. Prego tutta la notte, non solo per me, ma soprattutto per i miei figli e per mio marito.

Alla fine la notte passa. Penso: «Se non sono morta, vuol dire che dovevo tentare ancora qualcosa». E decido di reagire: la prima cosa che faccio è mangiare un'arancia, dopo 10 giorni di digiuno, anche se non né ho sentito né l'odore né il sapore. Non mangiavo non perché non avessi fame ma perché non avevo la forza di alzarmi per andare in bagno, ed essendo tutti isolati in casa, non avevo nessuno che potesse aiutare a lavarmi. Mi sono sentita umiliata: io che in genere sono sempre attiva e pronta ad aiutare gli altri, sola e immobilizzata a letto con il pannolone.

Venerdì sera, alle 22, il medico di base si fa vivo dopo aver visto le tante chiamate perse sul cellulare. Aveva dimenticato il telefono in macchina, mi dice, era tranquillo perché c'è il 118. Reagisco male a tanta tranquillità e indifferenza e, dopo avergli detto che se sarei stata bene e uscita viva ne avremmo riparlato, gli chiudo il telefono in faccia.

Il giorno dopo mi sento un pochino meglio: risale la saturazione. E finalmente ho abbastanza forza per telefonare a un'amica. Così trovo sollievo: non volevo far preoccupare le mie figlie, che erano in un'altra casa, ma allo stesso tempo avevo bisogno di sfogarmi, di parlare per esorcizzare il dolore.

Domenica diminuisco l'ossigeno perché mi accorgo che riesco a respirare meglio: la saturazione è a 94. Lunedì va sempre meglio. Martedì la saturazione sale già a 97 e tocca 98. La terapia della dottoressa Schiaffini sta dando l'effetto sperato: di base i farmaci erano gli stessi, ma le dosi erano finalmente adatte al mio corpo (maggiorate di quattro volte) e in più c'erano medicine di protezione per lo stomaco e vitamine per il sistema immunitario.

Chiamo la mia amica Tiziana per ringraziarla di avermi presentato il gruppo. E inizio a scrivere: è terapeutico. Io che non scrivo mai mi ritrovo a riversare su carta tutte le mie sensazioni: rabbia, dolore, forza, impotenza, denuncia, ma anche risata, coraggio. Lo racconto a mio marito e lui ride: gli sembrava strano che io stessi trascorrendo il mio tempo a scrivere e a parlare di Covid, quando lui invece reagiva cercando di non pensarci.

Giovedì 18, poi, mi sento ancora meglio, il Covid sembrava sul punto di soccomberee venerdì 19 comincio a ridurre cortisone ed eparina. Poi succede una cosa che non saprei definire: alle 12, sui propri canali istituzionali, il Comune di Maiori comunica che i positivi sono tutti asintomatici. Non è vero. Ci siamo io e mio marito. Ma nessuno lo sa. Assurdo. Eravamo diventati invisibili.

Domenica 21 mi sento davvero bene. È strano come delle cose normali possano sembrarci straordinarie quando non le facciamo da tempo: finalmente ho dormito 5 ore di fila.

Martedì 23 si parla finalmente di un tampone di verifica: nessuno, però, è disposto a farmi una visita per vedere come stavano i miei polmoni.

La mattina del giorno dopo l'Usca mi fa un tampone domiciliare, che risulta positivo, ne ripeto un altro dopo 10 giorni ma è ancora positivo.

Il 10 aprile, finalmente, negativo.

 

Scrivo questa lettera perché credo che possa aiutare tutti quelli che, come me, si sono sentiti abbandonati dal sistema sanitario, da alcune persone in cui riponevano fiducia, ritrovandosi a combattere da soli contro un mostro invisibile.

Purtroppo, c'è ancora troppa diffidenza nei confronti di chi contrae il covid: per gli altri (e spesso anche per il medico di base) siamo degli appestati. Eppure, tante volte, nemmeno ce lo siamo presi apposta il Covid. Non abbiamo rischiato con comportamenti inappropriati, abbiamo seguito le disposizioni igienico-sanitarie alla lettera ed eccolo qui. Entra senza bussare e ti scombussola la vita.

Dovrebbero averci insegnato qualcosa il Covid, il lockdown e il distanziamento sociale. Ad essere più umani, a giudicare di meno, a capire l'importanza delle cose che non si vedono e non si comprano. Eppure spesso non è così: ho ricevuto affetto e sostegno da un gruppo facebook di sconosciuti, da amici di una vita e da persone inaspettate. Altri, invece, si sono dileguati o hanno minimizzato. E soprattutto, chi doveva prendersi cura della mia famiglia a livello sanitario non l'ha fatto. Ma io ce l'ho fatta lo stesso: ho lottato contro il sentimento di resa, contro gli ostacoli e contro la rabbia che mi divorava e ne ho tratto forza.

Per questo, voglio darvi un consiglio spassionato: voi siete la vostra forza. Voi stessi. E anche nelle difficoltà più grandi non dovete mollare e dovete tirare fuori tutta la grinta che avete, anche se respirate e camminate a stento.

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